
Bologna, 20 nov. (AdnKronos Salute) - Temperature rigide, risorse naturali limitate, intense radiazioni ultraviolette e soprattutto scarsa disponibilità di ossigeno. Vivere ad alta quota non è affatto semplice: quando ci troviamo a 4 mila metri sopra il livello del mare, la quantità di ossigeno che il nostro corpo riesce a utilizzare è circa la metà di quella a disposizione a bassa quota. Una condizione che rende faticoso anche solo mantenere attive le normali funzioni vitali. Ci sono però dei popoli che a quelle altitudini vivono da millenni senza subire gli effetti nocivi della ridotta disponibilità di ossigeno, ad esempio le comunità che risiedono sull'altopiano tibetano e quelle di etnia sherpa. Come ci riescono? La risposta, secondo uno studio guidato dall'università di Bologna e coordinato da Marco Sazzini, antropologo molecolare di UniBo, sta nel Dna. Indagando il genoma di queste popolazioni, un gruppo internazionale di ricercatori ha individuato una serie di combinazioni di varianti genetiche uniche, collegate a processi di formazione e proliferazione dei vasi sanguigni più efficienti del comune. Caratteristiche, queste, che permettono una maggiore circolazione di sangue e quindi una maggiore diffusione dell'ossigeno nei tessuti, garantendo così il normale funzionamento dell'organismo anche ad alta quota. I risultati dello studio sono stati pubblicati su 'Genome Biology and Evolution'."I popoli che vivono sull'altopiano tibetano e le comunità di etnia sherpa che risiedono nelle valli di alta quota nel versante nepalese dell’Himalaya - spiega Sazzini - sono tra gli esempi più rappresentativi di come la specie umana sia stata capace di adattarsi ad ambienti molto diversi tra loro. Una capacità che ci ha permesso di raggiungere ogni angolo del pianeta e di sopravvivere e prosperare anche in aree remote ed inospitali". L'interesse per la fisiologia di queste popolazioni non è nuovo, ma fino ad oggi le basi genetiche delle caratteristiche ereditate di generazione in generazione da migliaia di anni e che ne hanno garantito la sopravvivenza erano rimaste sconosciute. "Le analisi fatte finora - ricorda Sazzini - avevano portato a identificare modificazioni nei popoli tibetani e sherpa soltanto in due particolari geni, legati a un meccanismo di difesa nei confronti del cosiddetto mal di montagna, una patologia pericolosa che può manifestarsi quando ci si trova in ambienti con carenza di ossigeno". Questa particolare caratteristica genetica è legata però solo a un aspetto indiretto del processo di adattamento alla vita ad alta quota; non spiega invece come queste popolazioni, nei loro villaggi a oltre 4 mila metri sopra il livello del mare, riescano a garantire alle proprie cellule una quantità di ossigeno sufficiente a sopravvivere e a riprodursi. Una risposta a questo interrogativo arriva ora, per la prima volta, grazie allo studio condotto presso il Laboratorio di antropologia Molecolare e il Centro di biologia genomica del Dipartimento di scienze biologiche, geologiche e ambientali (Bigea) dell'ateneo bolognese.Sequenziando il genoma completo di una persona di etnia sherpa proveniente dalla Rolwaling Valley, remota valle nepalese sul versante meridionale dell'Himalaya, e di altre originarie dell'altopiano tibetano, gli autori sono riusciti a dimostrare che la selezione naturale ha agito in queste popolazioni su un vasto numero di geni, ciascuno dei quali contribuisce individualmente ai processi di adattamento all'ipossia, la condizione di carenza di ossigeno nell'organismo. "Quello che emerge dal nostro studio è un modello poligenico - evidenzia Sazzini - che mostra cioè come sia stata la combinazione di varianti distribuite su più geni ad aver permesso l'evoluzione di un fenotipo così complesso come quello dei popoli di alta quota". In particolare, le varianti genetiche individuate dai ricercatori sono collegate a una maggiore efficienza dei processi di angiogenesi, cioè di formazione e proliferazione dei vasi sanguigni: un adattamento che garantisce una migliore irrorazione dei tessuti e la circolazione di un maggiore volume di sangue al loro interno, rispetto a quanto accade in individui originari di bassa quota. "La presenza di questo complesso di varianti genetiche - precisa il ricercatore - rende possibile un trasporto di ossigeno ottimale nell'organismo dei popoli tibetani e sherpa pur in presenza di una quantità di emoglobina e globuli rossi uguale o addirittura inferiore a quella osservabile in soggetti non geneticamente adattati all'alta quota". Le conclusioni degli scienziati promettono di rivelarsi utili anche in ambito biomedico. Queste informazioni, infatti, potrebbero permettere di individuare target terapeutici adatti a combattere patologie (fra cui i tumori) in cui lìipossia rappresenta una caratteristica tipica dei tessuti colpiti.Per realizzare lo studio, il gruppo di ricerca ha utilizzato un approccio inedito che combina tecniche statistiche tradizionali con un nuovo metodo basato sull'analisi di tutti i network di geni esistenti nel patrimonio genetico umano. E che tiene conto allo stesso tempo delle varianti presenti sui numerosi geni che regolano un determinato processo biologico. Una nuova metodologia di analisi che può essere replicata su altri casi studio, permettendo così di ampliare le conoscenze in merito ai meccanismi evolutivi che hanno mediato, nel corso dei millenni, l'interazione tra le popolazioni umane e i diversi ambienti in cui hanno vissuto.Il lavoro è stato possibile grazie a numerosi studiosi del Dipartimento Bigea dell'università di Bologna, fra cui Guido Alberto Gnecchi Ruscone (primo autore), Paolo Abondio, Sara De Fanti, Stefania Sarno e Davide Pettener. Hanno collaborato anche Donata Luiselli del Dipartimento di beni culturali dell'ateneo bolognese e i membri dell'associazione Explora Nuunat International, in particolare Davide Peluzzi e Giorgio Marinelli, responsabili assieme agli sherpa del Mount Everest Summitter's Club dell'organizzazione delle spedizioni scientifico-umanitarie durante le quali sono stati prelevati i campioni biologici analizzati. Lo studio è stato finanziato dalla Commissione europea nell'ambito del progetto Erc Langelin e da fondi dei National Institutes of Health americani messi a disposizione da Anna Di Rienzo, docente presso il Dipartimento di genetica umana dell'università di Chicago.
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